Una socia della Cooperativa Comunica, Francesca Gallo, si è resa protagonista di una bella iniziativa rivolta al recupero delle antiche tradizioni trevigiane. Cooperativa Comunica, da sempre vicina al territorio e al tessuto sociale, ha in cantiere diversi progetti per la valorizzazione delle botteghe artigianali e per far avvicinare a questo mondo le nuove generazioni e si sta impegnando per raccogliere finanziamenti al fine di attivare i suddetti progetti, magari già dall’estate 2014.
In calce riproduciamo l’articolo apparso su Tribuna di Treviso che spiega le motivazioni e il progetto di Francesca Gallo.

In Europa è l’unica donna, artista e artigiana, in grado di costruire fisarmoniche e strumenti ad ancia libera, a cominciare dalla scelta del legno dell’albero fino alla messa a punto della melodia. Francesca Gallo, 38 anni, non ha lasciato nulla fuori della porta della musica, di casa nella sua bottega a Fiera, a due passi dal Sile. Fisarmonicista, ricercatrice etnografica, interprete, autrice di spettacoli, soprano lirico, cantastorie. D’altronde ha iniziato fin da bambina a mangiare pane e note nella bottega di papà Luciano, uno dei pochi artigiani costruttori di fisarmoniche in Italia. Figlia d’arte certo, ma non di papà: da aprile del 2011 è titolare del marchio di produzione di strumenti ad ancia libera “Galliano e Ploner” ai quali dà vita e note nella sua bottega artigianale. Ma a Francesca, “a voxe del Sil” nel mondo musicale della Marca, non bastava ripescare e cantare le storie dei mestieri del Sile e della sua gente che fu. Così da settembre 2011 ha provato a bussare alle porte delle botteghe artigianali e dei negozi storici nel cuore della città per cominciare raccontare di ciascuno la storia. Ad accompagnarla nella realizzazione del progetto, che ha aperto la strada alle visite guidate nelle botteghe indipendenti della città, c’è Fondazione Benetton di Palazzo Bomben e l’associazione “Codice a barre”. Per Francesca è stato un riprendere in mano il filo di una città conosciuta da bambina per provare a ricucirne il tessuto sociale.

Francesca, possiamo ormai dire: c’era una volta il centro storico di Treviso e le sue botteghe?

«Le storie di bottega sono il mondo dove sono cresciuta e mi riconosco. Da bambina, con mio papà e mio fratello al sabato si faceva il giro delle botteghe del centro per comprare ciò che serviva alla nostra. Fuori da una porta, dentro in un’altra. Non c’erano i telefonini e se serviva si faceva anche passaparola. Era come stare in una grande famiglia. Il giro terminava alle 11.30 davanti a Muscoli’s, in Pescheria. Era il punto di ritrovo degli artigiani e artisti trevigiani. Si cominciava a parlare delle mostre d’arte e si finiva con le battute del “processo dea vecia”. E ancora dai concerti alle barzellette».

Da dove inizia, allora, il giro della città sulle orme dei negozi storici?

«Può ad esempio iniziare da botteghe storiche come Vasconetto, Bottegal, Fabris. E ancora la libreria Tarantola, l’osteria Muscoli’s, la cereria di Ettore a fianco del Duomo, la pelletteria Soligo, le passamanerie Zuccon in via Manin. Racconto le loro storie di bottega. Le tipologie sono due: gli artigiani che producono o aggiustano qualcosa. E i commercianti indipendenti che decidono cosa tenere e conoscono i loro clienti per nome. A differenza delle grandi catene il valore aggiunto sta nella ricchezza dei rapporti umani. Non sono certo le luci accese giorno e notte, come nei centri commerciali, ad attirare i clienti. Ma è la nostra identità. Il saper essere persone di riferimento all’interno della città. E’ questo il tessuto sociale di un centro urbano. Ecco che la comunità ritrova la propria identità. Alla fine dei conti gli outlet ricreano in qualche modo una città. I centri commerciali sono una sorta di città coperta. Bisogna quindi ritornare a vivere la città, quella vera».

Negozi che raccontano la vita di una città. Ma cosa li tiene ancora in vita?

«Io li chiamo “negozi resistenti”. Tutte queste botteghe, e almeno una ventina in città, hanno continuato a esistere perché c’è stata una nuova generazione che ha portato avanti l’attività. I figli prima di tutto. Dove non c’erano figli il testimone è passato ai garzoni di bottega. Ma per continuare bisogna far proprio un modo di vivere e di essere. Non basta appendere fuori un cartello con su scritto: “Cercasi apprendisti”».

Una specie in via di estinzione nell’era della crisi?

«Per salvare bisogna prima di tutto saper valorizzare. In Friuli Venezia Giulia fuori di ogni bottega storica la Regione ha fatto appendere una targa. C’è scritto il nome e la data. Basta entrare per scoprirne la storia. Qui non si riesce a fare neanche questo».

Nella Treviso delle troppe botteghe storiche che diventano buchi neri, qual è un tesoro perduto?

«Un caso emblematico è quello della bottega di Bepi Zorzi, l’orologiaio che era in via Inferiore. Ha chiuso bottega il 31 dicembre del 2012 a 85 anni, dopo aver insegnato il mestiere a tutti gli orologiai della città. A far bottino della sua arte sono stati gli ultimi suoi giovani allievi. Due giapponesi».

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